A
partire
dal
XII
secolo,
sebbene
nota
già
in
precedenza,
venne
a
diffondersi
un’innovazione
che
migliorò
la
qualità
della
doratura.
Per
rafforzare
il
fondo
sul
quale
applicare
la
foglia,
si
introdusse
l’uso
di
mescolare
una
colla
insieme
a
un
colorante
–
spesso
minio,
cinabro,
zafferano
o
bolo
armeno,
ovvero
un’argilla
comune
e
contenente
ossido
di
ferro
-,
a
un
eccipiente
–
in
Italia,
gesso
sottile,
ottenuto
dopo
avere
lasciato
a
bagno
la
polvere
per
diversi
giorni;
nel
nord
Europa,
calcare
–
e,
infine,
a
un
agente
igroscopico
–
miele
o
zucchero.
Questa
tecnica,
conosciuta
come
a
guazzo
o
a
mordente
,
prevedeva
che,
dopo
l’applicazione
sul
supporto
e
la
sua
essicazione,
questo
impasto
venisse
leggermente
umidificato,
con
albume
chiarificato
o
con
l’alito,
e
in
seguito
fosse
stesa
la
foglia
d’oro.
Grazie
al
rafforzamento
del
fondo,
l’artista
poteva
procedere
a
una
brunitura
più
marcata
in
grado
di
rendere l’oro ancora più splendente.
Una
versione
differente
di
questa
tecnica,
detta
a
missione
,
vedeva
l’uso
di
un
solvente,
per
l’adesivo,
a
base
oleo-resinosa
invece
di
uno
a
base
acquosa.
Tale
variante,
tuttavia,
era
impiegata
raramente
nell’arte
miniata
e
più
di
frequente
nella
pittura
su
tavola,
su
parete
e
su
tela.
La
seconda
tecnica,
detta
a
conchiglia
,
è
di
datazione
incerta
e,
sebbene
più
semplice,
essa
era
più
costosa,
poiché
vedeva
un
utilizzo
maggiore
di
metallo
per
la
stessa
superficie
rispetto
alla
tecnica
a
foglia
d’oro.
Vi
è
inoltre
da
considerare
che
la
polvere
d’oro
è
difficile
da
ricavare,
a
causa
della
malleabilità
di
questo
metallo
che,
sottoposto
a
martellamento,
si
comporta come cera.
Per
limitare
la
malleabilità,
dopo
la
macinazione
delle
monete
–
fonte
più
comune
di
oro
-,
alla
polvere
così
ottenuta
era
aggiunto
un
additivo,
quale
sale,
sabbia
o
miele.
Oppure
veniva
usato
del
mercurio
che,
insieme
all’oro,
forma
la
lega
detta
amalgama
,
la
quale,
molto
facile
da triturare, era macinata all’interno di una conchiglia: da qui il nome della tecnica.
Al
termine
di
questi
procedimenti,
la
polvere
d’oro,
ricavata
che
fosse
dall’uso
di
sale
o
di
mercurio,
veniva
utilizzata
come
un
vero
e
proprio
pigmento
e
applicata
al
supporto
insieme
a
un
legante.
La
doratura
ottenuta
è
tuttavia
differente
da
quella
a
foglia
d’oro.
Mancando
la
fase
della
brunitura
finale,
infatti,
la
doratura
a
conchiglia
si
distingue
per
la
sua
minore
lucentezza,
chiaramente visibile nelle miniature che, dai secoli passati, sono giunte fino a oggi.
L’oro,
anche
a
causa
del
suo
costo,
non
era
l’unico
metallo
utilizzato
nelle
miniature.
Suoi
sostituti
erano
l’argento
e
il
rame,
ed
elementi
meno
preziosi
come
la
pirite
e
lo
stagno.
Certo,
l’argento
poteva
servire
per
decorare
le
armi
nelle
scene
di
battaglia,
ma
più
spesso
il
suo
compito era quello di rimpiazzare l’oro.
L’argento,
tuttavia,
con
il
tempo,
tende
a
imbrunirsi
a
causa
del
solfuro,
diventando,
a
vista,
poco
riconoscibile.
Per
questo
veniva
messa
in
atto
la
cosiddetta
doratura
a
mecca
,
tramite
la
quale
veniva
applicata
sulla
lamina
di
metallo
una
vernice
oleo-resinosa,
la
mecca
appunto,
che
preserva
l’argento
dall’imbrunitura.
Stessa
tecnica
era
utilizzata
per
trattare
altri
sostituti
dell’oro,
come
lo
stagno,
reso
in
tal
modo
più
resistente,
e
il
rame,
usato
anche
in
lega
con
lo
zinco per formare l’ottone, e che tende a diventare verde-blu a contatto con l’aria.
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